martedì 4 maggio 2021

DIALETTICA STOICA E SISTEMA CONOSCITIVO

 

IL MENTITORE

EPIMENIDE CRETESE AFFERMAVA CHE TUTTI I CRETESI ERANO BUGIARDI

Appare evidente che Epimenide, essendo cretese, non possa che produrre una bugia. Da una tale sua posizione consegue, altresì, che l’affermazione da lui proposta dovrebbe risultare falsa: a derivarne sarebbe l’opposto di quanto espresso, ovvero che i cretesi non sono bugiardi. Da ciò il dilemma che, risolto da Russell, è stato emblematicamente delineato in termini simbolici da Cocchiarella. Il caso è stato, altresì, specificamente affrontato nel libro: Giuseppe Addona Percorsi di filosofia edito da G. Laterza Bari.

La risoluzione, da Russell prodotta, è stata resa possibile dalla posizione fuori dal sistema di colui che si esprime. Un cretese, dunque, non può affermare: tutti i cretesi sono bugiardi poiché a derivarne sarebbe il dilemma di cui sopra. Possiamo tuttavia aggiungere che anche Epimenide potrebbe risultare in una tale posizione esterna allora che, benché cittadino di Creta, non rientrasse oramai tra coloro ai quali applica un tale giudizio. Nel momento stesso che si rendesse conto che i suoi concittadini si siano rivelati bugiardi e che si indirizzasse su altra strada lo porterebbe a distinguersi, non appartenendo, a questo punto e sotto un tale aspetto, a una siffatta comunità, della quale enuncia un fatto. 

 

IL SORITE

Quanti chicchi di frumento occorrono per formare un soros ovvero un mucchio? Risulta evidente che un chicco non sia da ritenere un mucchio. Questo, infatti, è reputato un insieme di quelli ovvero costituito da un numero piuttosto grande e però non definito, così che l’aggiunta di un granello non appare né apportare né risolvere la concezione di esso mucchio. Il problema risulta incentrato sul passaggio non individuabile, così come accadeva a quella divisione già contemplata dal discepolo di Parmenide, né, altresì, denotativo di quel concetto. Un siffatto discorso rientra nella concezione che non può risultare definita per l’intervento di un elemento che vada ad aggiungersi agli altri, unitamente ai quali deriva una significazione ritenuta e però non tale da non richiamare altro che rappresenta l’aggiunta. L’insieme non arriva a costituire in alcun caso essa significazione. Per il resto, questa è necessaria alla comunicazione, la quale, benché risulti aperta, ovverosia tale da contenere quanto non recepito unitamente ad altri e per quanto questo stesso possa pervenire a configurazione intersoggettiva e che, in questo caso, risulta dalla ritenzione piuttosto comune, e però sempre parziale per quanto ampia possa delinearsi una convergenza sugli elementi posti in essere, pure risulta la condizione portante ancorché nei termini non interamente adeguati.

 

IL CALVO

Il discorso precedente vale per i capelli. Sottratto, infatti, uno a questi non porta a ritenere l’interessato da un tale fatto un calvo. Si può continuare così togliendone due o quanti si voglia. A non restare individuato è, anche in questo caso, il passaggio per il quale ad emergere possa essere il concetto, pure, per il resto, ritenuto. Questoè, infatti, non contempla una definizione netta. A non risultare interessata è, infatti, ancora una quantità data.

 

IL VELATO

Conosci colui che si avvicina con il viso velato? No. Se si scopre il volto lo conosci? Si. Conosci e non conosci, dunque, la stessa persona.

Per risolvere un tale “dilemma” appare sufficiente già l’individuazione aristotelica. Le configurfazioni si dispiegano, infatti, in un tempo diverso e per aspetti diversi. In un tempo t1 a presentarsi è una persona velata e in un tempo t2 quella che riteniamo la stessa, per gli elementi che permangono, con il viso scoperto. A restare è tuttavia il problema rappresentato dal legame, così come accade ogni qualvolta si tenta di attribuire un qualcosa ad altro, ovvero di far leva su una causa, fatto questo che non può essere intuito ovverosia colto come da Hume sarà constatato ed esplicitato.

A essere mantenuto fermo, in ogni caso, è colui che si ritiene lo stesso prima con il viso celato e poi scoperto.

 

IL CORNUTO

Ciò che non hai perduto lo hai. Ma non hai perso le corna quindi le hai.

In questo caso la risoluzione di quella che può essere reputata una antinomia si presenta piuttosto facile. L’uomo non aveva le corna e quindi non le aveva perdute così che queste possano continuare ad appartenergli. Il discorso risulta incentrato su una generalità nella quale è fatto rientrare un caso specifico. Si tratta di quello che è possibile ritenere un inserimento non appropriato e portatore del falso.

 

L’EMPIETÀ CHE CARATTERIZZEREBBE I SACERDOTI

Colui che rivela i misteri ai non iniziati è un empio. Il sommo sacerdote rivela i misteri ai non iniziati, dunque il gran sacerdote è un empio.

Il “dilemma” è portato dalla concezione ovvero, più specificamente, dalla mancata definizione sia di quelli che sono veicolati come misteri che di coloro che sono ritenuti gli interessati ai quali questi sono trasmessi. Una volta sono ritenuti misteri quegli elementi da non divulgare all’esterno e un’altra a fare da corrispettivo sono i cittadini ai quali un tale sacerdote si rivolge con un rito considerato legittimo. Quanto professato come atto, in primo luogo se non esclusivamente, in un tempio rappresenta, infatti, quello che di religioso al popolo è partecipato; nell’altro caso quanto deve essere tenuto lontano dalla portata della comunità intera, risultando riservato solo agli adepti.

 

IL TROVARSI O MENO DI QUALCUNO IN UNA CITTÀ

Se uno è a Megara non è ad Atene. Ma c’è un uomo a Megara quindi non c’è un uomo ad Atene.

Nel primo caso si tratta di un qualcuno indicato come tale ancorché, per il resto, non definito: tanto risulta dal pronome. Una stessa persona, infatti, non si trova insieme in una città e in un’altra. Nel secondo a risultare espresso è un nome denotante un genere. Uomo infatti è sia qualcuno che si trovi a Megara e sia ad Atene, fatto questo che non solo non è in contraddizione ma appare constatabile così che Socrate, in quanto uomo, potrebbe stare ad Atene e Aristocle, ancora uomo, a Megara.

 

 

IL TROVARSI O MENO IN CITTA’

Ciò che non è in città non è neppure nella casa. Ma non vi è un pozzo nella città quindi non vi è nemmeno nella casa.

In questo caso per pozzo in città si intende un pozzo visibile ovverosia presente in questa magari adibito ad uso pubblico e quindi collocato in una strada o in una piazza, fatto questo che si configura nella sua diversità rispetto ad un pozzo privato perché in una casa. Tra il privato e il pubblico, non risultando contemplato questo in quello, arriva a dispiegarsi una tale antinomia.

 

IL DILENMMA DEL COCCODRILLO

Un coccodrillo, che aveva rubato un bambino, promise alla madre di questo di restituirglielo se avesse indovinato la sua intenzione. La madre rispose che quello non l’avrebbe restituito. L’animale, che voleva tenerselo, a questo punto, si trovò di fronte ad un dilemma. In base al patto, tenuto conto che la madre aveva individuato le intenzioni di quello, avrebbe dovuto restituirlo. Restituendolo avrebbe però reso falsa l’affermazione della madre.

Il discorso si presenta di ordine filosofico ovverosia necessita di riflessioni perché si possa addivenire ad una riconduzione del problema ritenuto per secoli insolubile.

Proviamo a muovere dal coccodrillo rappresentante un riferimento. L’animale avrebbe potuto mangiare il bambino e invece pone in gioco un tale fatto disponendosi in una relazione con la madre del bimbo. Tanto significa già superare la semplice posizione precedente. Egli non può dunque non pensare, a questo punto, in funzione dell’altro riferimento, dalla madre costituito. Constatata valida la risposta, dovrebbe restituire il bambino. Diverso, invece, il discorso nel momento stesso che a essere assunto sia l’altro riferimento, dalla madre del bimbo costituito. Questa, però, dicendo il vero, sembrerebbe legittimare il coccodrillo a procedere in tal senso. In tal caso però a risultare annullata sarebbe la posizione di esso coccodrillo che aveva messo in conto la possibilità diversa costituita dal non tenere il bambino allora che la madre di costui avesse indovinato l’intenzione che, tuttavia, dobbiamo ritenere superata dalla comunicazione posta in essere.

Il discorso si presenta ancorato, dunque, a due termini. A dispiegarsi è quello che, altresì, potremmo reputare un sistema chiuso nel quale un passaggio tra quelli non è risolto. Ad intervenire è infatti una volta una esplicazione ed un’altra l’altra.

La madre del bambino, ritenendo che il coccodrillo volesse tenerselo, appare riferirsi all’animale che, già intenzionato a tanto, pure arriva a metterlo in discussione. Ciò a significare che la madre si riferisse alla prima intenzione di quello che però risulta messa in gioco. Da ciò dovrebbe derivare la conclusione.

Ove a valere fosse, dunque, la considerazione della madre, l’animale dovrebbe procedere in tal senso. In questo caso però a crollare sarebbe l’intero apparato dal coccodrillo posto in essere e incentrato sul primo riferimento. Una volta il discorso risulta imperniato sull’intenzione, che potremmo ritenere di base, ossia sulla natura del coccodrillo di tenere per sé quanto predato e un’altra sul discorso al quale pure esso coccodrillo si è affidato.


lunedì 3 maggio 2021

ARISTOTELE, I GRADI DELLA CONOSCENZA

 

La conoscenza, che secondo il pensiero di Aristotele comincia dalla sensazione, trova il suo coronamento nella scienza che è conoscenza in senso universale ovvero relativa all’essere in quanto tale e non a particolarità o ad accidenti. A subentrare alle sensazioni che potremmo ritenere semplici è la memoria, per la quale a formarsi sono le esperienze. Ad emergere poi, anche se non sempre in termini chiari e distinti, sono una tecnica e un’arte, la quale ultima spesso prende il posto della scienza.

Oggi, riteniamo, per lo più, che la tecnica sia un’organizzazione di esperienze non individuata nei suoi elementi portanti e, soprattutto, non insegnabile facendo leva su termini comprensibili perché affidati questi ad una ad una pratica. Una spiegazione, infatti, non può che far leva su fattori individuati e razionalmente collegati. Si parla di arte allora che si perviene a cogliere un qualcosa di ottimale se non di sublime facendo leva su termini, i quali, però, ancora non risultano interamente espressi. Noi riteniamo scienza, invece, quella conoscenza incentrata su termini misurati al punto che possa ripetersi il fenomeno riproducendo quei parametri, portati magari da regole anche più o meno complesse. Essa scienza è comunicabile e, quindi, insegnabile.

L’esperienza non corrisponde, comunque, alla scienza: da una serie di osservazioni può non emergere una spiegazione del fenomeno. Da essa possono derivare tentativi o anche spiegazioni particolari che però non escludono il caso che arriva ad interessarle in una parte molto ampia.

Si tratta, soprattutto nel caso di Aristotele, di individuare la differenza tra scienza e arte che però si presenta molto sottile e spesso sfuggevole. L’artista e lo scienziato appaiono differenziarsi in primo luogo per il fatto che l’arte è un’organizzazione, ancorché risolutrice e, possiamo ritenere, universale senza, però, una misurazione degli elementi. Questi, invece devono cessare di configurarsi quali variabili. Proprio un tale procedere va a connotare la scienza, la quale risulta incentrata su termini definiti e sulle relazioni osservate, a propria volta misurate. Aristotele arriva talvolta a sovrapporle o, più specificamente a scambiarle.

Questo filosofo, anche se intreccia spesso i termini, perviene a ritenere arte e scienza per l’universalità che esprimono al punto che i risultati non risultano aleatori o affidati al caso o ancora a una particolarità da esperienze portata. Egli considera la scienza come quella conoscenza dell’essere che muovendo dall’esperienza perviene a quella universalità per la quale non possono che risultare quegli effetti e non altri. Diverso il discorso incentrato su osservazioni che lascino fuori altro da cui, appunto, risultati non contemplati. Gli effetti, in questo caso, risponderebbero a congiunture.

Una lezione del prof. Addona riportata da Alice De Stasio, IC

È POSSIBILE DISTINGUERE L’INTELLETTO IN ATTIVO E PASSIVO?

 Per spiegare il passaggio da potenza ad atto ma, soprattutto e specificamente, per individuare l’intuizione nel suo esprimersi, Aristotele ricorre all’intervento di un intelletto attivo, che dovrebbe rappresentare la capacità di cogliere quanto in essere per una intuizione. Esso intelletto umano, sembrerebbe questa l’argomentazione di un tale filosofo, è constatato non operare sempre. È visto, infatti, intervenire talvolta ed altre non. Proprio da una tale non continuità ovvero da un non rivelarsi sempre presente sorge il problema: Per il fatto, dunque, che l’intelletto non agisca sempre sembrerebbe risultare negato un suo essere. Esso, infatti, che talvolta coglie il legame e il passaggio da qualcosa a qualcos’altro altre risulta assente. Ove rappresentasse un essere dovrebbe svolgere il proprio ruolo. A essere considerato sembra proprio quale un essere che però non può essere ritenuto tale poiché un essere non risulta solo a tratti per poi scomparire.

Al riguardo, però, basterebbe considerare l’uomo da sveglio e da dormiente. Trattandosi tuttavia di un qualcosa da venire a configurazione ovvero tale da esprimersi quale essere, Aristotele arriva a considerare un quid sul quale fare leva e tale da sostenere quell’operazione che non riesce a essere spiegata. L’uomo, infatti, non è ritenuto potere porre in essere alcunché potendo solo rappresentarsi una conoscenza a un essere corrispettiva. Non potendo affidarsi nemmeno a una potenzialità, poiché questa attiene all’essere, commette la spiegazione ad un intelletto attivo che viene, in una qualche modalità, in aiuto all’intelletto dell’uomo.   

Esso intelletto attivo sembrerebbe però acquistare una connotazione quasi divina. Superiore ed esterno a quello dell’uomo è considerato soccorrere l’altro per portare questo a essa intuizione. In una tale ritenzione Aristotele arriva quasi a comportarsi in un modo non diverso da Platone, pure condannato per avere posto in essere un inutile doppione costituito dal mondo delle idee rispetto a quello sensibile. Nel caso in esame, infatti, Aristotele, ancorché tentennante, appare comunque richiamare un’altra realtà anziché risolvere il problema concentrandosi solo sull’intelletto dell’uomo.                                                                                 

Noi moderni, riportando le considerazioni del professore Addona, potremmo ritenere che essa intuizione sia prodotta da quell’attività che riesce a collegare termini fino a farne emergere altri che, prima del loro comparire in una siffatta configurazione ovverosia intuizione, risultavano non noti. Proprio il dispiegarsi di quanto inseguito arriva a essere ritenuto portato da una illuminazione e specificamente per il fatto che a risultare evidenti sono le relazioni che forniscono una spiegazione di quanto prima, monco, si delineava, appunto, in una oscurità.

Se l’uomo, altresì, intuisse continuamente si avvicinerebbe alla posizione dalla quale un dio è reputato cogliere, in uno, il tutto. Al di là di tanto risulterebbe quell’uomo proiettato fino a comprendere i vari legami nel loro dispiegarsi, venendo in tal modo ad avvicinarsi a quella condizione superiore.

Non, dunque, per mezzo di un intelletto esterno un intelletto passivo sprigiona le sue potenzialità. È essa attività, quale pensiero, che perviene a risolvere i legami tra termini presenti e richiamati fino a essere rappresentati in quella che si dice intuizione e da tenere distinta da quella dai fenomeni rappresentati nello spazio e nel tempo così come da Kant ritenuta.       

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PENSIERO

 

Allora che per intelligenza si intenda la capacità a collegare appare evidente che un programma possa essere predisposto così che, dati alcuni parametri, a conseguirne possano essere termini, ovverosia relazioni richiamate perché rispondenti ad un tutto già approntato. Il discorso non muta allora che al posto di una base, che possiamo ritenere fissa, si inserisca la possibilità di elaborazione della stessa. Tanto a dire che un programma può procedere in quella che possiamo ritenere una ricomposizione di se stesso. Questo non può avvenire che ancora per parametri impostati. Diverso il discorso che riguarda esso pensiero il quale appare esprimersi oltre tutto ciò.

Cosa rappresenta dunque un tale pensiero? Potremmo rispondere: la possibilità di spingersi, quale attività, oltre tutto quello che è stato programmato. Se anche tanto appare, in ultimo, interessare una intelligenza artificiale, pure, esso pensiero arriva a distinguersi per il fatto che essa attività che esprime risulta ancorata ad un soggetto che si dispiega ponendosi rispetto agli altri come pratica da un universale discendente. Anche un tale discorso, tuttavia, potrebbe essere impostato e però da esso pensiero, il quale, in questo caso, verrebbe a connotarsi specificamente quale ragione. Questa, infatti, si trova a fondare e ad esprimere se stessa in quella generalità da cui la restante parte non può che dipendere.

Esso si presenta come quel qualcosa che, non definito se non da se stesso, giunge a configurarsi come principio che riesce a riconfigurarsi e, nello stesso tempo, a riconoscersi nei suoi stessi mutamenti, ovvero sviluppi, risultando di tanto consapevole, così come elemento anche in una corresponsione con un essere che perviene in siffatti termini a pensare. È il pensiero a disporre se stesso e a produrre, quindi, tutti gli eventuali programmi che da esso prendono inizio sia a livello teoretico che, soprattutto, pratico. Anche allora dunque che un programma fosse tarato per rifondare se stesso si troverebbe a rispondere a quell’impostazione di base da esso pensiero costituita e posta in essere. Da una programmazione, anche aperta, a non emergere sarebbe quel qualcosa che, non definito da alcunché se non da se stesso ancorché in risposta a termini che arrivino a dispiegarsi, non condurrebbe a ciò da cui comunque si trova a dipendere. Si tratta di essa attività rappresentativa, appunto, si esso soggetto che non è fissato da altro, diversamente da quanto accade ad un programma complesso e proiettato per reimpostarsi quanto si voglia.

Questo potrebbe riconoscere sia se stesso che uno sviluppo non ancorato su termini che possiamo ritenere primitivi potendo procedere su ciò che, via via, venisse a dispiegarsi e però anche tanto non potrebbe che rispondere all’impostazione per la quale è stato avviato per percorrere una tale strada. Il suo stesso riconoscimento non può esulare dai termini dai quali si è mosso. In caso contrario a irrompere, fino a fa far scoppiare l’intero sistema, sarebbero sdoppiamenti che non consentirebbero più un riconoscimento. Esso, in ultimo, sfuggirebbe a se stesso.

Il pensiero, che non procede, dunque, né solo su variabili né su costanti ma su quanto riesce ad esprimere in una libertà, risulta consapevole di se stesso e dell’approdo cui, di volta in volta, perviene, senza cessare, quindi, in quella sua identità ancorché dinamica per quanto arriva a dispiegare nella sua stessa evoluzione. Essa attività si riconosce nello stato in cui è approdata costituendo e comunicando esso soggetto. Tanto sia a livello teoretico, per ciò che arriva ad esprimere al punto da risultare non solo riconoscibile ma tale da fare da riferimento ai termini che va a collegare e, quindi, ad attribuire, e sia e soprattutto quale elemento di quella umanità universale, portante non solo un sistema ma quell’essere per il quale esso pensiero, come ragione, si riconosce e reputa di essere conosciuto. Quella, che non risulta confinata, pure si esprime come libertà che scientificamente giunge ad essere colta. Per un approfondimento della tematica si rinvia al mio lavoro La determinazione sociale dell’individuo eDimedia, liberamente consultabile sul sito giuseppeaddona.tripod.com

Ove un programma riuscisse ad esprimere tanto arriverebbe a pensare una libertà non però a fondarla e a farla rivivere dandole quell’essere incentrato su un soggetto tra soggetti. Essa libertà, dunque, così come principio, non può che derivare da quel soggetto che arriva ad avviare anche un tale programma.

A tanto si aggiunge quel sentire generale, il quale, benché possa magari, a propria volta, risultare programmato, prende il suo essere da quella sensibilità che connota l’uomo che avverte l’universalità fino a porre in essere unitamente alla ragione quel soggetto. È questo che dà l’avvio a quel processo che può anche essere predisposto ad avanzare su una via autonoma e che però è stata prevista da quel soggetto che ha affidato a essa “intelligenza artificiale” un tale compito che può proiettarsi fino a tracciare nuove strade e però controllabili da colui che lo ha avviato. In caso diverso potrebbe, un tale sistema, trovare elementi e però tali da rappresentare non quel soggetto che si pone in essere per quella generalità nella quale ritrovare gli altri. Fuori da tanto e oltre tanto a presentarsi possono essere termini rispondenti, però, ad un individuo quando non ad altro ancora.

Essa intelligenza artificiale, ove in contrapposizione, porterebbe alla scomparsa di quell’essere uomo dal quale è stata costruita per rispondere ad esigenze alle quali non può che sottostare quell’universalità per la quale si può parlare di umanità ovvero di soggetto in rapporto per essa ragione e per essa sensibilità.  

lunedì 11 gennaio 2021

La gelosia

Una gelosia appare richiamare quell’appropriazione ovvero quel possesso di un qualcosa che, più che non volersi perdere, è ritenuto da non condividere con alcuno. Non si tratta di recuperare un oggetto quanto piuttosto di non voler accettare che essa “cosa” possa uscire da quell’ambito poiché reputata esclusivamente propria. Non si è disposti, in definitiva, ad accettare che esso qualcosa, diventato più che un possesso, torni allo stato primordiale ovvero al punto da non risultare nell’orbita costituita per la quale arriva a realizzarsi colui che pervenga a considerare anche un proprio essere per tanto. Sembrerebbe evidente altresì che esso oggetto si trovi a fare da completamento quando non da realtà effettiva a colui che constata di non essere in assenza di quello. Questo arriva a costituire comunque quello che potremmo ritenere un effetto ancorché potentemente spesso posto in essere da chi, appunto, non sia pervenuto ad una visione generale per la quale essere.

Proprio il rapporto tra esse due situazioni contemplate ovvero quella nella quale è presente l’altro e quella di chi, nella particolarità posta in essere, si ritiene di non condividere quello ritenuto appartenergli come appunto un bene esclusivo, porta a fare in modo che, allora, infatti, che a disporsi sia quella chiusa, l’altra non intervenga. I posizionamenti tuttavia, da parte di esistenti incentrati su tanto possono risultare vari e tanto in base agli elementi che arrivano a determinare un individuo a cominciare da un intelletto e, soprattutto, da una cultura acquisita. Per tali elementi infatti arrivano a essere approntate sia difese che atteggiamenti atti a non urtare con quanto da una società in genere accettato. Il problema, in questo caso, non appare risolto ma solo aggirato integrando i termini fino al punto da risultare smussati ed infine posti in essere in modo tale da non cozzare contro la suscettibilità generale. Un ulteriore fattore è rappresentato da comportamenti e da considerazioni, dunque, per i quali si possa ritenere o meno di perdere esso oggetto. Se qualcuno ad esempio reputasse che una relazione fosse incentrata su qualità particolari, quali magari un bello, allora che a configurarsi di fronte fossero elementi ritenuti non al livello proprio potrebbe non innescarsi essa preoccupazione. A restare per continuare a minare il rapporto potrebbero ancora essere elementi particolari e comunque tali da inserirsi sulla restante parte. Una persona, così legata ad un ricco potrebbe ben non intraprendere una relazione con un’altra e però sottrarre da un tale rapporto mancato quanto ancora e diversamente possa appagare. Non appena, tuttavia, quella disposizione aperta arrivi a far sentire la propria voce e prepotentemente a dispiegarsi è vista quella tensione continua volta a perseguire costantemente l’allontanamento di ogni elemento che possa richiamare essa violazione, appunto, temuta. Alquanti, infatti, appaiono presentarsi con una certa apertura solo perché stimano non essere investiti da quella problematica portata dalla sottrazione di esso oggetto. La tutela, altresì, da parte dello stato venuto a costituirsi talvolta non sembra bastare a coprire quanto reputato da conservare da parte di quelli che, oramai, non arrivano a posizionarsi in una consapevolezza dei termini effettivi. Costoro sono portati a vedere coloro che possano inserirsi quali nemici dai quali difendersi approntando quindi le “valutate” fortificazioni.

Diverso, tuttavia, il discorso che arriva ad interessare coloro che risultassero più o meno coscienti della relazione posta in essere. Su termini stabiliti si troverebbero a disporsi ritenendo che un tale rapporto, poiché concordato, sia da portare avanti. Se l’altra di fronte è considerata una persona affidabile, capace, quindi, di mantenere l’impegno, essa gelosia sembrerebbe dispiegarsi solo in potenza ovvero in considerazione del fatto che l’apparato sul quale si è convenuti non possa saltare essendo ritenuto quello supportare esso impegno. Tanto arriverebbe a costituire una sicurezza per colui che comunque si dispone ancora come individuo e tale da beneficiare della configurazione di fronte. Costui sarebbe ancora pronto ad esplicitare le proprie richieste al variare del termine di esso rapporto, fatto questo che risulta facilmente constatabile per le valutazioni che ad ogni occorrenza assumono la configurazione di quell’apostrofare prodotto dopo che una relazione si sia interrotta e che sono viste subentrare ad espressioni diametralmente opposte. Sembra che tutti i pregi in precedenza sciorinati si siano commutati in difetti che girano intorno in un modo più vorticoso e pesante di quelle statue di cui già parlava Socrate.

Vi è bisogno, dunque, che l’individuo arrivi a dispiegarsi quale soggetto ovvero che pervenga al punto tale da superare oltre che accettare eventi che dovessero presentarsi ed attenere quindi sia e soprattutto al soggetto di fronte, fatto questo che, con l’universalità che porta con sé, dovrebbe portare a quell’incontro al di là delle particolarità che anche in caso la “controparte” si rivelasse fuori da un tale discorso. Sarebbe, infatti, esso, nella generalità da cui osserva a comprenderle l’altro. Ove tanto non accada il discorso non può che tornare sull’individuo incentrato su particolarità dispiegantesi di fronte ad altre e variamente componentesi per i fattori più vari e al di là stesso di quanto da una società portato e da norme prescritto. Ciascuno vedrebbe ricadere su di sé quanto pure è visto interessare l’altro. In un tale contesto a supportare non sarebbe una ragione ma un intelletto richiamato per ottenere effetti rispondenti a spinte egoistiche o comunque tali da non potere accampare pretese maggiori di altre che ad ogni occorrenza pure puntualmente condannate.

Tanto è constatato accadere prima ancora che a risultare interessata sia una libertà la quale, altresì, intervenendo, senza possibilità di essere compresa, né, al contrario essere sostenuta, al punto da potersi scientificamente dispiegare, non risultando, dunque, in un modo quale che sia ancorata potrebbe stravolgere o annullare lo stesso intero e precario sistema posto in essere. Proprio questa arriva a essere posta all’angolo e, infine, ricacciata o, al contrario, richiamata perché supporti quanto altrettanto individualmente ritenuto legittimo perché posto  in essere ed incentrato su costrutti di parte e tali da presentarsi quale un sistema compiuto o da aprirsi per includere quanto occorra per continuare sgombrando al contempo la strada da quanto ritenuto ostacolare impedendo quella libertà reputata attenere nel modo più sacrosanto possibile quanto ritenuto fare da riferimento e unico da colui che si è legittimato quale esistente e che sta portando avanti il discorso che ha organizzato.

Appare evidente che si tratta di coniugare non i vari termini in modo empirico ma essa libertà determinante il soggetto per una universalità a essa corrispettiva con un impegno assunto che non può risultare altrettanto universale nel momento stesso che risultasse ancorato a fattori particolari quali elementi che venendo meno porterebbero all’annullamento di quello che su essi era stato costruito. A risultare interessata è, dunque, quella apertura caratterizzante esso soggetto nelle stesse relazioni che perviene ad assumere.

Va da sé, quindi, che iniziative o comportamenti che non considerassero l’altro nella sua universalità si troverebbero a fare leva solo su quanto attiene ad un individuo che magari pure ha recepito l’altro per una assunzione magari e però non totale ovverosia in una generalità e soprattutto di comodo poiché incentrata appunto sul proprio sé e su quanto, così come portatore di questo, venuto a dispiegarsi. Ad interagire, fino, all’occorrenza a sostituirsi, sarebbero configurazioni più o meno ampie e ancoraggi su richieste strette ovverosia particolari ed esclusive. Da tanto ad emergere in molti casi sono vite e relazioni.

Allora che una settorialità prenda il posto di quella generalità, solo per la quale il soggetto con l’universalità, la libertà e quanto da una ragione oltre che da una sensibilità portato, a derivare non possono che essere effetti, i quali, così come particolari e dunque limitanti, si dispiegano innanzi ad altri particolari e soprattutto non riconoscendo quanto può rientrare al punto da permettere un incontro. A dispiegarsi, infatti e variamente, al di là di tanto, è ciò attiene a quanto incentrato su un ego o ancora su istinti ed avvertire sparsi nonché più o meno compositi.

Appare evidente che se l’intero discorso si gioca sui sentire propri di ciascuno e non ancora quantomeno sugli affetti, per i quali il riferimento arriva a essere costituito dagli altri, a dispiegarsi sono solo richieste che reclamano di essere esaudite e che non possono, come tali dare spazio a quanto, di fronte, pure chiede di essere ascoltato e spesso risulta addotto come un fatto portante all’incontro e però posto in essere così come particolare. Il discorso si complica fino ad indirizzare ad una risoluzione più marcata allora che quella stessa persona che si era espressa in un rapporto, questo stesso chiude senza ritenere di dovere comunicare alcunché: il sistema ritenuto da valere è quello proprio che con argomentazioni si tenta di legittimare quando non semplicemente ed assolutamente lo si valuti l’unico ed ineccepibile.

Tanto accade allora che si lascia intero spazio a quanto di volta in volta avvertito. Al fine di non soccombere alle particolarità che queste portano propriamente con loro si tratta di impostare le relazioni ad un livello diverso, ovvero generale. Quegli stessi sentire, dunque, non possono non risultare inseriti in una sensibilità e recepiti da quella ragione, entrambe universali per le quali quello di fronte è considerato un soggetto nel quale arriva a trovare spazio, fino a coesistere quanto non può inficiarla.

Solo una volta, dunque, considerati, per essa ragione e per essa sensibilità, gli altri appare possibile porre in essere un qualcosa di specifico che arriva a connotare un esistente quale essere che non urta, appunto, con quanto perviene a configurare un soggetto. Anche nel caso, dunque, più forte e dall’innamoramento rappresentato non può risultare cancellata quella visione generale a sensibilità e ragione rispondente. Una tale tematica è stata affrontata specificamente in Giuseppe Addona, Sensibilità e ragione, Bonanno editore.

Una legittimazione, in ogni caso, non può che derivare dalle possibilità di mantenimento di quanto pure incentrato su esso individuo quale esistente con le esplicazioni che lo caratterizzano. Solo in una tale posizione appaiono trovare spazio quelle stesse effusioni con quel piacere che arrivano a portare con loro e però nella consapevolezza di non essere scisse da una generalità. Queste non possono, comunque, essere viste quali estranee da chicchessia che si trovi a considerare quelli di fronte soggetti e a esso stesso rispondenti come tali. In caso contrario si inserirebbero essi stessi come particolari cessando di essere soggetti. Una volta posta in essere essa generalità appare facile distinguere quanto di particolare, per il resto, pure arriva a presentarsi consentendo, all’occorrenza, di sacrificare quello che è constatato particolare rispetto a quel soggetto dall’universalità portato. Diversa una tale dimensione dallo stesso discorso costituito da un sistema nel quale si convenisse. Se da questo possono essere desunti i termini pure esso, derivando da particolarità, non potrebbe, in ultimo, che a queste rispondere diversamente, dunque, da quella dimensione da una ragione e da una sensibilità costituita, le quali si esplicano come contenuto e forma insieme ovvero si dispiegano come universalità che si esprime come realtà. Essa universalità, formalmente avvertita, si esplica come pratica nella modalità, appunto, categorica, per quanto concerne la ragione così come già da Kant colta e, possiamo aggiungere, rappresentante un tutt’uno per essa sensibilità che recepisce quanto rileva specificamente come proprio. L’altro, per questa, infatti, non rappresenta un estraneo ma quanto a essa inerente.

Se il ritenere, infatti, in un apparato dispiegato, che specificità possano sussistere appare più facile poiché a risultare delineati sono i riferimenti, pure per il resto, proprio questi vanno ad interrompere essa universalità che si esprime come forma generale da una ragione posta in essere e quindi come sensibilità, le quali, aperte per la stessa disposizione, non trovano limiti esplicandosi puntualmente per la generalità a loro propria.

Quanto, in caso diverso, può risultare valido in un sottogruppo si trova a dipendere solo dal fatto che esso gruppo maggiore non ne risenta perché soprattutto lasciato a rapporti ritenuti personali tra cittadini e però tali da non inficiare il sistema in essere. Appare trattarsi, in ultimo, di sintesi e di compromessi inclusi in esso sistema e però non invalidanti questo stesso. Tanto però appare rappresentare un’isola che è vista infrangersi non appena ad intervenire siano elementi, appunto, dirompenti. Le relazioni, infatti, non possono essere confinate al sottogruppo né mantenersi su termini non portanti nel discorso più largo.

Se in un siffatto discorso si trovano a rientrare le stesse modalità per le quali quanto esplicato non urti con i soggetti diversa è tuttavia la validità che ne consegue e soprattutto interamente differente quel sostegno che, all’occorrenza rende veramente liberi quelli di fronte perché è lasciato loro quello spazio dall’universalità portato. Nell’altro caso a garantire è chiamato il sistema dal quale non sono escluse esse particolarità che a volte si sovrappongono ed altre reclamano una indipendenza posta in essere contro esso stesso intero sistema.

Da considerare è altresì propriamente il fatto che non appena qualcuno si ponga per difendere quello che reputa un bene acquisito e tuttavia sottraibile si dispone già per tanto a quella lotta che magari non arriva a dispiegarsi, al momento almeno, e per le motivazioni che a uno stato rinviano e che si presenta con una sua forza in vari termini espressa, ovvero a quella guerra da condursi con altre armi o solo trasferita affidandosi a quegli strumenti ritenuti tali da non impegnare esse leggi o evaderle.

Senza addentrarci in esempi dei quali sono piene le rappresentazioni teatrali e le letterature riguardanti personaggi grotteschi, poiché visti lottare costantemente contro possibili eventi senza potere trovare tranquillità e brancolando dunque in un buio e particolare e tanto distanti da quanto ritenuto effettivo dal resto della comunità, al punto da suscitare ilarità, appare che sia tanto che situazioni meno drammatiche ritenute da un senso comune o da una voce di popolo ma comunque effettive e che tanti segni lasciano in una società, ancorché non sia vista immediatamente lacerata, possano risultare allontanate solo in quella dimensione universale ed intersoggettiva nella quale procedere senza che altro riferimento possa prendere quel posto. Solo in essa universalità, dunque, non vi è da temere alcunché poiché, se essa dipende per gli effetti pratici da ciascun componente in essa società, per il resto, non può essere sottratta perché a dispiegarsi o sono soggetti universali che quella non inficiano ma sostengono per la propria parte o individui che, come tali, possono anche portare via con la forza o con altri mezzi qualcosa non però quell’universale annullare. Questo, come tale, non può essere sottratto anche se in questo caso una pratica non è vista corrispondere, così quale un fatto sensibile ed effettivo, che pure potrebbe e dovrebbe risultare associato a quella universalità. Ancora una volta, nel momento stesso che tanto si avveri, a dispiegarsi sarebbero esse particolarità approdate o meno sistemi ristretti o contraddittori.  Essa universalità se non può risultare distrutta poiché non dipende da tanto pure si presenta impossibilitata a relazionarsi intersoggettivamente con coloro che si pongono fuori e azioni contrarie producono. Essa formalità, per quanto si dispone fuori o si proietta contro, risulta impossibilitata, così come è costretta a constatare, a coniugarsi.


Composizioni poetiche e intelletto

Sembrerebbe che colui che compone non debba avere già presente quanto, via via, giungerà a delinearsi. Solo esprimendo, infatti, la sensibilità che arriva nei vari momenti a dispiegarsi pone in essere quel mondo “composito”.

Quanto avvertito, tuttavia, ciascuna volta, come universale pure arriva ad associarsi ulteriormente per costituire una dimensione nella quale le stesse sensazioni arrivano a rappresentare elementi di un discorso unico che si protende per poi chiudersi in quel mondo così come venuto a delinearsi.

La differenza con una ragione, esprimente una universalità, appare data dal fatto che questa non si lascia dietro termini poiché, non appena in essere, si dispiegano come la realtà stessa di essa. Anche un tempo, con quanto questo porta con sé, ovverosia con gli elementi che arrivano a fare da base, risulta annullato in quel presente ritenuto universalmente valido. Ciò stesso che prima risultava effettivo rientra per quel riconoscimento che, specificamente, in quanto analitico, porta a risolvere quegli elementi, che siano, altresì, recepiti o allontanati propriamente per il fatto di non trovare posto in quella validità generale espressa. Non sono, in questo caso, dunque, i passaggi a rappresentare una dimensione ma quanto arriva a essere individuato in quei termini universali portanti per se stessi.

Essa non fa leva su elementi al punto da potersi proiettare oltre come accade a una poetica. Giunge, infatti, a rappresentare un tutt’uno fino a configurare essa realtà che, anche allora che risulti superata da altra non va a fare da base ad una composizione poiché, per quella universalità che possiamo ritenere in atto, quanto constatato non più effettivo scompare, infatti, alla luce della nuova considerazione e ciò che invece tale risulta non va a comporsi ma ad esprimersi interamente. Ciò che perviene a legarsi, perché incentrato su una sensibilità, pure non può, dopo il dinamismo prodotto, che lasciare spazio alla generalità e all’apertura che essa caratterizzano. Ove tanto non accadesse quella non risulterebbe condizione e realtà ma si troverebbe a dipendere da quanto fornito in una composizione. Questa, dunque, per esaltante che possa risultare, per quello, appunto, che arriva a configurare e ad offrire, non può sostituire essa universalità caratterizzante essa sensibilità. Questa, richiamata e confluente nella dimensione che arriva a dispiegarsi, non perviene ad essere bloccata, rappresentando una realtà universale che apertamente si rivolge a tutto ciò che, in un modo quale che sia, giunge a rientrare. Non sono diverse così, quanto ad effettività da essa sensibilità portata, una mirabile composizione poetica o la notizia di un qualcosa che richiama una umanità in termini ancora universali. Recepire una madre che si applica per il suo piccolo fino a far diventare proprio uno stato che non appartiene più singolarmente ad alcuno non muove meno di un accordo meraviglioso di note musicali o di iperboli e contrappunti con aperture e chiusure nonché diversificate prodotte da un sonetto. In un caso essa sensibilità appare “solo” richiamata e nell’altro muoversi in quella che possiamo ritenere una autonomia pronta a dispiegarsi e a recepire una universalità facendo propri i termini che arrivano a configurarsi seguendoli propriamente in quel loro dinamismo che spesso giunge ad affascinare. Proprio una tale sensibilità arriva a dispiegarsi nella sua consistenza a prescindere da quanto organizzato o anche semplicemente fornito, differenza questa per la quale risultano, da un lato l’arte classica e dall’altro quel romanticismo ritenuto solo esprimere quanto di più alto e generale avvertito. Essa sensibilità è vista, dunque, associarsi ma non per restare ancorché partecipi al punto da sembrare di tenere interamente il campo. Accade a essa, dopo la relazione per la quale si compenetra, quanto avviene alla ragione che essa universalità immediatamente e senza frapposizione alcuna pone in essere. Prima, infatti, di coniugarsi con essa sensibilità recepisce, così come attività, quello stesso dispiegamento in essa dimensione che è arrivata a prodursi e che si dice poetica. Avanti che tanto accada, dunque, la sensibilità giunge a porre in essere essa realtà così come venuta a configurarsi e che, al di là di una consapevolezza, che tuttavia si ritira, al momento, in disparte, non appare lasciare spazio alcuno se non al rilevamento di elementi così come venuti a comporsi fino a dispiegarsi in una unità che non considera né ammette altro.

Essa, che recepisce, dunque, anche per un intelletto, il quale interviene appunto per individuare o anche collocare ulteriormente i termini così come proposti e che arriva a confluire nella dimensione prodotta, fino a sentirsi parte integrante di quell’universalità, pure non si trova a dipendere da tanto poiché è vista sottostare alla stessa poetica posta in essere.

mercoledì 9 dicembre 2020

A proposito di Romanzi!


Molto dell'individualismo contemporaneo si trova a essere potenziato, se non prodotto in larga parte, da tanti romanzi, nei quali vi è un qualcosa di effettivo che di quello risulta corrispettivo. Tali proposte, pur muovendo da una sensibilità del protagonista al quale il lettore si associa e partecipando alle vicende a questo accadute, giungono a presentare l'antagonista/gli antagonisti, come diversi e cattivi, ai quali non solo bisogna resistere, ma anche prepararsi per muovere loro guerra. Una volta individuato il “nemico”, infatti, il protagonista pensa di essere il giustiziere impersonando il giusto per eccellenza, ma di fatto, crea una barriera tra lui e l'altro. Essendo stato prodotto un tale spartiacque, ne consegue che a prendere corpo è quella diversità che arriva ad essere configurata da coloro che stanno dall’altra parte del muro che è stato eretto e proprio per tanto non accettata. Proprio una siffatta mentalità appare collocarsi dopo che sono stati dimenticati, ammesso che siano stati un tempo considerati, termini dai quali sembrava che legittimamente dovesse emergere quella valutazione derivante da un'impostazione personale. È questa, dopo che è divenuta da particolare assoluta a prendere il posto di quella intersoggettiva. Proprio per questa, dunque, la visuale deve essere ripresa, non restando fissata solo su taluni fattori oscurando altri elementi. Una persona che aspiri a diventare soggetto e per una ragione e una sensibilità generale riconosciuta è quella dunque, che si propone al di là di quella visuale di parte.

A fare la differenza è proprio l'indagine filosofica, ovvero l’applicazione di quella critica, che non si ferma a recepire restando ancorata ad un solo punto di vista. Da considerare è, altresì, la non compenetrazione e la non riconduzione di quanto velocemente e superficialmente prospettato che arriva così ad occupare quella che possiamo anche ritenere una psiche. Proprio in una siffatta impostazione si annidano quegli errori che passano come effettività, perché non controllati. Se non si riescono a rilevare taluni errori nascosti o anche volutamente camuffati, questi verranno assimilati, giungendo a formare la personalità, inconsapevolmente, e quindi in maniera errata. Si tratta, dunque, di saper leggere quanto proposto. In caso contrario, è meglio non bere ad una tale fonte. Allora che avvelenata o non salubre all'origine anziché dissetare si rivela dannosa fino a potere risultare esiziale. Meglio non sapere leggere che non sapere tradurre. Un tale passaggio arriva, comunque, ad essere superato dai messaggi su larga scala che non richiedono nemmeno l’acquisizione di un codice scritto. Un tale discorso rappresenta il corrispettivo potenziato di una erudizione. Per questa, infatti, a essere ritenuti sono fatti stimati rappresentativi di una realtà non da indagare poiché non alcunché è stimato potere essere al di là di quanto meccanicamente immagazzinato. Viene, anche in questo caso, fatto proprio tutto quello che non è stato valutato. Ove infatti, non si risalisse ai termini della proposta, questi risulterebbero semplicemente assunti, producendo i propri deleteri effetti, non emergendo, infatti, nella loro provenienza e, dunque, nella loro delineazione così che una validità possa emergere fino ad ulteriore prova contraria. Emblematico al riguardo si configura un esempio rappresentato da un’autrice che presentando un suo romanzo ambientato in Germania la cui protagonista era una operaia italiana che veniva puntualmente rimproverata in modo pesante e con espressioni offensive da una che svolgeva mansioni di controllo trova ad un certo punto la forza per riscattarsi essendosi appropriata di una piccola parte di esso codice linguistico a lei non noto e che pertanto la faceva sentire ancorr più emarginata. Fatto è che dopo numerosi richiami uno le fu sbattuto addosso una mattina in cui arriva in ritardo al lavoro per essere scesa dall’autobus ed essere caduta su un mucchio di neve ed essendosi, così come dichiarato inzuppata d’acqua. Il pubblico a questo punto non può che stare dalla parte della “poverina” la quale in quelle condizioni doveva sentirsi dire ancora una volta, di portare avanti azioni poco simpatiche su una parte del corpo di quella che non ripeto e perché cito a memoria e per il fatto di aver trovato già a suo tempo volgare. Tanto non vuole rappresentare un perbenismo poiché quanto accade sia in quella che è ritenuta una natura che in una società deve essere, come tale, rilevato. Se una tale espressione non può che farci prendere le difese della offesa pure non si può non considerare che colei che rimproverava pure arrivava puntuale sul posto di lavoro. I numerosi ritardi della protagonista appaiono così risultare tralasciati. Proprio tali omissioni arrivano a dare la differenza tra una cultura critica, dalla filosofia e da una logica portata, e un bere a sazietà fino a diventare secchioni. Ai miei alunni tra gli argomenti di educazione civica è affrontato il ritardo. Ove non fosse possibile convenire all’orario stabilito a perdere una parte di lezione sarebbero gli alunni non presenti. Allora che il professore aspettasse a perderci sarebbero gli alunni puntuali in aula che vedrebbero dispiegare un tempo passato inutilmente. Ancora più emblematico il caso dei viaggi di istruzione. Alcuni alunni che procedessero puntualmente nei loro comodi avrebbero fatto alzare inutilmente tutti gli altri seduti negli autobus ad aspettare. Non si tratta di casi derivanti da forza maggiore e rappresentanti eventi eccezionali per i quali a valere è un discorso che tanto prende in considerazione poiché all’uomo non si richiede di essere una macchina o di potere comandare a tutte le circostanze ma solo di fare tutto quanto possibile considerando gli altri soggetti come o ancor più del proprio se stesso.     

Fare critica, dunque, non solo appare altrettanto importante che documentarsi ma addirittura risulta il lavoro primario da portare avanti. Nel caso in cui non si procedesse ad una individuazione valutata, si resterebbe sotto la notizia con il danno che deriva dalla produzione artefatta, soprattutto, per ottenere effetti o anche ove tanto non si desse i risultati si troverebbero a dipendere da proposte già all’origine non filtrate o di parte perché molto limitato risulta l’’angolo di osservazione benché per questo ad emergere siano quelle sfaccettature che spesso allettano perché si scopre di rientrare in un mondo al quale in precedenza non era stato dato spazio.